Intrigo a Venezia: la CIA come promotrice dell'arte americana
Una cordata di imprenditori e spie per promuovere l'arte USA a Venezia. La storia.
Fin dai tempi dell'amministrazione Truman gli USA avevano iniziato una offensiva culturale per convincere il mondo che non "erano solo un paese di bottegai" ma una nazione capace di produrre cultura di alto livello.
Si trattava di dimostrare che la democrazia liberale (e capitalista) era capace di competere sul piano culturale con l'Unione Sovietica.
La questione principale in realtà era persuadere le élite intellettuali europee (in Francia e in Italia erano decisamente schierate a favore del modello comunista) che la libertà politica del sistema occidentale avrebbe indotto in automatico una equivalente libertà creativa (fondamentale per l'innovazione artistica).
L'equazione era semplice e anche sostanzialmente vera: dal 1924 Stalin aveva messo in pista il Realismo Socialista a senso unico che bloccò di fatto quasi completamente qualsiasi forma di espressione "non-conforme".
In URSS poteva esistere solo una pittura figurativa fedele ai valori del Partito Comunista (e anche i successori di Stalin non fecero molto di meglio).
US PAVILLION BIENNALE VENEZIA
Della faccenda se ne occupò direttamente la CIA con un dipartimento esterno appositamente creato, lo IOD (International Operations Division) il cui capo per anni fu Thomas W. Braden.
La missione era sostenere, promuovere ed esportare efficacemente l'Arte Contemporanea made-in-USA senza usare denaro pubblico (senza insomma coinvolgere l'opinione pubblica che era piuttosto fredda - se non ostile - alle opere "moderne", i maccartisti in particolare consideravano gli artisti una pericolosa gang di irrecuperabili comunisti).
LEO CASTELLI
Vennero coinvolti sia la Fondazione Rockfeller che il MoMA.
Per farla breve: Il padiglione USA alla Biennale di Venezia fu gestito autonomamente dal MoMA stesso (senza passare per il governo americano) dal 1954 al 1962.
William A. Burden e John H. Whitney (assieme a Nelson A. Rockfeller) furono i personaggi chiave del consiglio del museo che gestirono con discrezione e indubbia capacità la cosa (non erano comunque dei bigotti burocrati, conoscevano bene l'Arte e avevano una visione ragionevolmente progressista della politica).
Si occupavano, tra varie cose, anche di promozione (la rivista "Life" faceva parte della stessa cordata) e di logistica (la CIA aveva una piccola flotta mezzi di trasporto, aerei compresi).
DE KOONING PORTRAIT
La quintessenza dell'arte statunitense era l'Espressionismo Astratto e alcuni esponenti, come Jackson Pollock e Willem de Kooning, furono tra i primi soggetti "valorizzati" attraverso questi meccanismi (a Venezia comunque li aveva già fatti conoscere Peggy Guggenheim già dal 1948).
Nel 1954 de Kooning rappresentò gli USA alla XXVI Biennale (proprio fra qualche giorno inaugura la mostra che le Gallerie dell'Accademia di Venezia gli dedicano).
Pochi anni dopo, nel 1958, Mark Tobey (un pittore astratto americano che amava la calligrafia orientale) vince il premio della Biennale.
L'offensiva culturale statunitense ebbe successo e non si fermò solo a Venezia (la mostra "The New American Painting" nel 1958 è a Milano e nel 1959 alla Tate di Londra e al Musée National d'Art Moderne di Parigi).
POLLOCK PORTRAIT
Una curiosità: Jackson Pollock in certi ambienti governativi era stato (impropriamente) immaginato come un Cow Boy dell'Arte, uno che avrebbe potuto veicolare una certa idea - maschilista e alcoolica - dello stile di vita americano di allora.
E una nota: gli artisti in questione non seppero mai che parte del loro meritatissimo successo era stato anche frutto di un disegno politico/propagandistico.
Non erano dei "raccomandati". Solo erano persone di enorme talento che si sono trovate nel posto e nel momento giusto.
RAUSCHENBERG SQUARE
New York stava diventando la indiscussa capitale mondiale dell'Arte soppiantando decisamente Parigi.
E iniziavano contemporaneamente a sorgere le stelle della Pop Art.
Nel 1964 prende forma il capolavoro dello IOD/MoMa: Il Padiglione americano della XXXII Biennale, gestito da Alan Solomon, Leo Castelli e Alice Denney.
In mostra la punta di diamante della Pop Art: Claes Oldenburg, Jasper Johns e Robert Rauschenberg.
Una scelta, va detto, di assoluta qualità ma anche astutamente ideologica: promuovere ufficialmente un'Arte che sottilmente contestava il consumismo capitalista era la prova-provata della superiorità (e della solidità) di un sistema che poteva permettersi di celebrare addirittura i propri detrattori.
Insomma un antidoto culturale per i critici della famigerata "Società Opulenta".
MOMA
Si puntava a far vincere Rauschenberg.
Leo Castelli scoprì proprio la sera prima che per vincere il Leone d'oro un artista - da regolamento - doveva avere esposte almeno 4 opere.
Ma ce ne era una sola. Nella notte - con l'aiuto diretto del Dipartimento di Stato e anche di alcuni Marines di stanza al consolato USA a Venezia - si riuscì rocambolescamente a fare arrivare nel padiglione altre 3 opere.
Giusto in tempo. Quella della mattina dopo fu una decisiva vittoria e il sole della Pop Art illumino' a lungo la scena (e il mercato) dell'arte.
In Italia Guido Piovene disse che "era il primo fatto nuovo che compariva alla Biennale dopo molti anni".
Non tutti erano contenti. I giornali di sinistra naturalmente scrissero del solito "complotto della CIA" (senza saperlo, almeno stavolta, erano abbastanza vicini al vero).
GIARDINI PADIGLIONE BIENNALE VENEZIA
La ineffabile Curia veneziana si espresse definendo questa nuova arte americana "un grande disordine morale" (?!). Dopo il trionfo del 1964 i destini delle Arti Visive apparentemente smisero di interessare la politica estera americana.
LA POPART
Spuntò così una seconda strategia dello spionaggio nell’arte, molto più complessa, che doveva riguardare un movimento, inventato a tavolino, la Pop Art.
Tom Braden della Cia divenne segretario esecutivo del MoMa, appoggiato da sua moglie, Joan, l'assistente di Nelson Rockefeller, grande finanziatore del museo, stratega della politica estera americana e collezionista d'arte (quello per intenderci che fece ripulire da un murales di Diego Rivera il volto di Lenin).
Un altro personaggio che ebbe un ruolo chiave nella nascita della Pop Art fu appunto Leo Castelli, ex- agente dell'Oss (il servizio segreto americano antesignano della CIA), già promotore dell'Espressionismo Astratto fin nel 1951 con il Club di 9e Rue a Parigi.
Castelli divenne il principale artefice del lancio della Pop Art, organizzò con l’amico Alan Solomon, anch'egli ex membro dei "servizi d'informazione" statunitensi, la fragorosa partecipazione degli artisti della Pop Art alla Biennale di Venezia del 1964 e descritta sopra.
"Non finisce qui l'intrigo Pop Art” scrisse Enrico Baj in Ecologia dell'Arte basandosi su fonti americane: "La prima moglie di Castelli (Ileana) dopo il divorzio si sposò con Michael Sonnabend che si dà per scontato fosse a Parigi il residente americano per i "servizi d' informazione".
I due coniugi Sonnabend aprirono nel 1965 una galleria d' arte a Parigi per la diffusione della pop art in Quai Voltaire.
La Pop Art vinse agevolmente la guerra contro il movimento europeo del Noveau Realism: la macchina da guerra americana che poteva usufruire di grandi risorse finanziarie, fondazioni, musei e mass media, travolse l'arte europea. Diceva mestamente Alberto Giacometti che "l'arte va dove c'è il denaro".
I sovietici si sconfissero da soli.
Ad una mostra di arte astratta a Mosca nel 1962, il leader sovietico Nikita Khruscev, disse agli artisti russi che un asino con la sua coda avrebbe dipinto meglio. Fu brutale e violento a tal punto da definirli “pidarasy” (pederasti).
Per i burattinai americani fu facile vincere contro tale ottusità e spregio dell’arte.
Nell'ideologia americana degli anni '60, degli All American Boys (of Arts) cercarono di risucchiare anche alcuni artisti europei.
Alla metà degli anni ' 60 non si chiedeva più di ripudiare il comunismo, bensì di prendere la cittadinanza americana.
Lo chiese Leo Castelli all'artista svizzero Jean Tinguely come prova d'ingresso tra gli artisti della sua galleria, ricevendo (come mi confidò nell' 87 lo stesso Tinguely) uno sdegnato rifiuto.
Altri accettarono: il francese Arman o il bulgaro Christo che diventò per sua stessa definizione, "artista americano nato in Bulgaria".
In quel periodo i veri artisti americani opposizione furono emarginati: come il gruppo della No-art o Edward Kienholz, l'artista tra più importanti dell' arte americana del dopoguerra, che rifiutò sdegnosamente le offerte di Leo Castelli, trovando solo in Europa i riconoscimenti dovuti.
Fonte: Antonio Riello e Dagospia, Giancarlo Bocchi per La Repubblica.
Chi sono
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